Le Filippine ai tempi del covid
Caro lettore, ti prego di prendere con benevolenza queste poche righe, che scrivo dalla mia stanza, senza uscire e con la poca conoscenza che ho del mondo esterno. Quando scrivo dalle Filippine verso la fine di aprile, le statistiche danno meno di diecimila colpiti dal virus e meno di mille vittime. Questo è consolante per un paese di cento e più milioni di abitanti, ma siamo anche un paese di emigranti con milioni di cittadini all’estero, tutti possibili importatori del virus. Un altro pericolo è che qui la gente ama stare ammassata, e spesso anche ci è costretta dalla povertà. Nelle grandi città, come a Manila, una percentuale della popolazione vive alla giornata sulla strada, raccogliendo stracci, cartoni e plastiche; molti altri vivono vendendo sigarette sfuse, acqua minerale e merendine agli autisti. In questo periodo non possono più muoversi e i piccoli commercianti non possono ricevere più clienti. La vita dei baraccati è più in strada che in casa. Ma il governo insiste: “Rimanete in casa!”
“Sì, ma a fare che? A morire di fame?” Polizia, soldati e guardie giurate hanno un bel da fare a istituire posti di blocco, a ordinare la ‘distanza sociale’ a dare punizioni ai violatori fino a metterli in prigione. Insomma, prima che dalla possibile epidemia, per molti si tratta di salvarsi dalla sicura morte di fame. Nelle famiglie benestanti forse i problemi psicologici e pratici saranno diversi, come la battaglia dei canali tv, dei gadget e dello spazio, ma nessuno ne è esente. Anche i Sacerdoti, che, come gli indigenti, vivono alla mercé di elemosine e donazioni, credo che questa crisi la sentano particolarmente dura.
Ma torniamo alla comunità nazionale, dove l’ordine presidenziale della quarantena tiene ancora bloccati fabbriche e stabilimenti, scuole e ristoranti, mezzi di trasporto e chiese. Soprattutto a livello di governo locale c’è molta tensione tra gli ordini dall’alto e le difficoltà pratiche della sopravvivenza dal basso. Molti capitani di barangay (unità politica di base) sono sotto accusa per violazioni delle restrizioni. È comunque cominciata in vari centri la diagnosi a tappeto che certamente sfocerà nella vaccinazione di massa e, si spera, nel recupero della normalità.
Mi piace notare, a gloria di Dio e della Nazione, due elementi positivi che sono emersi anche in questa tragedia. Primo, la partecipazione generosa dei privati in soccorso dei colpiti dal virus, al personale medico, ai volontari e ai poveri in difficoltà. Privati cittadini, personaggi dello sport, della tv e della canzone stanno facendo a gara nelle donazioni. Anche le grandi aziende produttrici di beni di consumo si sono mosse al soccorso con i loro biscotti, acqua minerale, scatolame, medicinali. La Caritas, per quanto ci riguarda, ha dato ventimila euro alla nostra parrocchia delle Stimmate situata nella periferia della Metropoli in forma di buoni acquisto per mille famiglie povere. Insomma, anche questa volta la tragedia ha risvegliato quel senso di umanità e solidarietà che in tempi normali resta appisolato. Secondo, mi piace aver visto su tante maschere, ma soprattutto dietro, dei grandi sorrisi di speranza e fiducia. Uno slogan ripetuto dalla tv invita la popolazione a stare tranquilla, nella sicurezza che “niente riuscirà a toglierci il sorriso”.
I Filippini, popolo sorridente, ancora una volta ridono in faccia all’uragano. Sorridono perché sono Filippini, ma anche perché, come cristiani, si sentono in buone mani. Il nostro Dio conosce la situazione e può intervenire. E certamente farà che tutto contribuisca al nostro vero bene.
— Romolo Bertoni —